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Una delle prime cose che si impara quando si decide di realizzare un vigneto è che ciò che si pianta non è una “piantina”, una “piccola vite” o peggio ancora un “alberello”, bensì una barbatella.

La barbatella viene ricavata da una vite già “adulta”, da cui viene “tagliato” un tralcio o talea. Questo “pezzo” di vite così ottenuto viene poi messo all’interno del terreno (in alternativa talvolta viene usata la sabbia, la segatura o l’acqua), affinché a partire dall’estremità tagliata si sviluppino le radici, la cosiddetta “barba” da cui deriva il termine “barbatella”. Tutto ciò è possibile grazie alla capacità della vite di rigenerarsi, quindi di ricostruire autonomamente parti precedentemente mutilate (in questo caso le radici). Una volta che le radici si sono sviluppate, il tralcio iniziale può considerarsi un individuo autonomo a tutti gli effetti. La maggior parte delle barbatelle in commercio sono già innestate. Questo vuol dire che la barbatella è stata ottenuta dall’unione di due tralci distinti, detti bionti, poi uniti tra loro. La parte inferiore, detta portinnesto, è quella dalla quale si genera l’apparato radicale mentre la parte superiore, definita nesto (ma anche marza, gentile o epibionte), costituisce la chioma. Ma qual’è il vantaggio di utilizzare delle barbatelle già innestate? Sicuramente perchè in questo modo la vite sarà produttiva in anticipo rispetto all’utilizzo del seme, ma anche perchè col portinnesto si possono correggere alcune caratteristiche del nesto: se ad esempio il nesto tende a sviluppare molte foglie, per tamponare questa vigoria allora si utilizza un portinnesto che al contrario tende a svilupparne di meno.

Ma il motivo principale per cui le barbatelle sono innestate è un altro, e per scoprirlo dobbiamo fare un salto nel passato di circa 150 anni, quando in Europa fece la sua comparsa la temibile fillossera. Questo parassita, originario del Nordamerica, si diffuse nel vecchio continente attraverso delle barbatelle americane infette. Se la sua azione provoca danni modesti alle viti americane e solo sulle foglie. Lo stesso non può dirsi per la vite europea per la quale l’attacco della fillossera produce danni gravissimi all’apparato radicale fino alla distruzione che avviene nel giro di 4-5 anni. La particolare aggressività dell’insetto unita all’impreparazione dei vignaioli dell’epoca, facilitò la propagazione della fillossera in tutta Europa ed oltre. Ci vollero 5 anni per comprendere la biologia del parassita e quindi per studiarne i rimedi. Alla fine, la soluzione che si trovò fu quella di sfruttare le parti delle viti nordamericane ed europee che si dimostravano maggiormente resistenti alla fillossera: le radici nella vite nordamericana e la chioma in quella europea. Si cominciarono a produrre barbatelle bimembre con portinnesti “americani” (ovvero la parte inferiore con le radici) e nesti “europei” (cioè la parte superiore con la chioma). Questo è il motivo fondamentale per cui ancora oggi le barbatelle sono innestate, ovvero per rendere la pianta più resistente alla temibile fillossera.

Una volta realizzato l’innesto, la barbatella avrà raggiunto la sua forma finale, caratterizzata da una lunghezza variabile da un minimo di 40 fino ad un massimo di 45 centimetri circa. Per ultimare il lavoro è però necessario un ulteriore passaggio, ovvero quello della paraffinatura. Come suggerisce la parola, l’attività richiede l’uso della paraffina in forma liquida (ricavata dal petrolio), ed è un procedimento che ha una duplice finalità: serve a protegerre la barbatella dalla disidratazione causata dal trasporto da un terreno (quello del vivaio) all’altro (quello in cui verrà messa a dimora la barbatella) e a ritardare la sbocciatura delle foglie così che subito dopo la messa a dimora venga favorito lo sviluppo delle radici. È quindi la paraffina a dare alla barbatella il suo aspetto finale colorato nella parte superiore per circa 20 centimetri.

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